La bomba del 19 luglio 2024

Sono anni che si parla di Cloud.

Dei vantaggi che il Cloud implica.

Della velocità che offre.

Del risparmio che promette.

E sono anni che assistiamo ad una inesorabile migrazione dei sistemi informatici sul Cloud.

Anche le piccole aziende stanno modificando i propri asset. Un esempio? Studi di commercialisti che spostano il proprio gestionale da un Server proprietario nella propria sede ad uno in cloud.

Perché?

Perché costa meno. Perché si può accedere al gestionale con un semplice browser anche da casa. Perché tutta la gestione e la manutenzione viene effettuata da chi offre il servizio, senza più preoccupazione da parte del titolare dell’azienda, che si sente sicuro, tanto i dati sono nel cloud.

Bisogna però fare delle considerazioni importanti, e bisogna farlo alla svelta, perché ciò che è successo tra giovedì 18 luglio e venerdì 19 luglio 2024 non è un campanello d’allarme. E’ una bomba.

Abbiamo assistito impotenti, in tutto il mondo, a situazioni assurde: voli cancellati, conti bancari inaccessibili, ospedali fermi, solo per citare i casi più gravi.

Tutto perché l’aggiornamento di un sistema antivirus ha creato un BSOD (Blue Screen Of Death, la temibile schermata blu che avvisa l’utente dell’impossibilità, da parte del sistema operativo Windows, di avviarsi correttamente).

Gli aggiornamenti vengono normalmente rilasciati dalle case produttrici di software solo dopo aver effettuato molti test, per avere la certezza di non incappare in problemi che possono essere molto gravi.

Ma oggi, dove tutti corrono, senza sapere da che parte andare, la fretta la fa da padrona.

E’ un mondo che vive di corsa. Un mondo dove tutto è a portata di click, dove l’attesa non è contemplata, ma considerata un fastidioso momento nella vita quotidiana.

Eppure gli psicologi raccomandano, quando si parla dell’educazione che dobbiamo dare ai nostri figli, di insegnare loro cosa significa il desiderio, l’attesa. Per questo consigliano di non regalargli subito quello che chiedono, ma di far crescere in loro il desiderio, in modo da renderli meno deboli e più consapevoli.

E’ un principio sacrosanto. Ma perché applicarlo ai bambini e non agli adulti?

Oggi un adulto che ha voglia di acquistare un paio di scarpe va su Amazon, e dopo pochi click ordina ciò che ha desiderato per pochi minuti. Il giorno dopo le scarpe saranno consegnate a casa.

Ugualmente, se un adulto ha voglia di evasione, ha la possibilità di acquistare un biglietto aereo e di prenotare un albergo. Anche questo con pochi click ed in pochissimo tempo.

Non parliamo dei concerti. Acquistabili, con due click, in tempo reale (anche se poi dobbiamo aspettare la data del concerto per mesi e mesi, perché la fretta che ormai ci pervade impone che i biglietti vengano venduti almeno 6 mesi prima dell’evento).

E’ questa dannatissima fretta, questa smania di avere tutto subito che ci ha sottomesso all’utilizzo di uno dei programmi più nefasti della storia: Whatsapp. Una chat velocissima che permette di scrivere messaggi e mandare messaggi vocali, evidenziandoci, con le famose spunte, se il destinatario ha letto o ascoltato il messaggio.

E così, sempre per la fretta, abbiamo smesso di parlare con una normale conversazione, con quel tipo di comunicazione che aveva in sé un valore infinito: farci capire lo stato d’animo del nostro interlocutore.

Quando si usava telefonare, ci si accorgeva subito se l’interlocutore era stanco, allegro, depresso, impegnato. E si reagiva di conseguenza.

Ora no: si manda un vocale e si aspetta la risposta. E tutto il gioco di emozioni, l’intimità tipica di un rapporto umano, muore.

In un mondo come questo, già di per sé abbastanza triste, si affaccia anche l’intelligenza artificiale. Che sta diventando per la nostra quotidianità quello che Sinner è diventato per la pubblicità: onnipresente.

Perché metto insieme Cloud, Whatsapp e IA in questo discorso?

Perché sono lo specchio della nostra società.

Perché sono l’esatta fotografia di cosa siamo diventati. Stiamo perdendo la personalità, l’identità, la responsabilità.

Ci stiamo affidando a sistemi sui quali non abbiamo il benchè minimo controllo.

Stiamo diventando dei consumatori di droga, convinti che non faccia male e che i pusher abbiano scorte inesauribili.

Tra ieri e l’altro ieri ci siamo accorti che può succedere che i pusher terminino le loro scorte. E che noi possiamo andare in crisi di astinenza.

Una crisi che mette a rischio le nostre vite. Immaginate un ospedale fermo: quanti interventi urgenti vengono rimandati? Quante persone in terapia intensiva possono aspettare domani?

Ben venga il progresso, sia chiaro, ma ad esso si deve affiancare una crescita etica, una presa di coscienza, una consapevolezza maggiore.

Non possiamo, e non dobbiamo, diventare schiavi della tecnologia. Dobbiamo essere in grado di poterla sempre e comunque controllare, padroneggiare, utilizzare senza interruzioni.

E’ questo il motivo per il quale io non mi fido del Cloud. Lo uso, ma lo uso per condividere informazioni che mi serve avere sempre con me, anche quando viaggio in compagnia di un semplice telefono cellulare. Lo uso per salvarci delle copie di backup (non le copie, ma delle copie, perché altre copie le salvo in dispositivi che ho in sede e che proteggo dall’accesso esterno gelosamente).

E lo uso solamente previo utilizzo di algoritmi di crittografia, che rendono i file indecifrabili in caso di un attacco hacker alla piattaforma Cloud che utilizzo.

Insomma, lo uso con consapevolezza.

Ed è questa consapevolezza che metto sempre in primo piano quando analizzo le esigenze dei miei clienti. E che mi spinge, con sempre maggiore sicurezza, a consigliare di prediligere soluzioni “in casa” piuttosto che in Cloud.

Torniamo all’esempio di un classico studio di commercialisti.

Utilizzano un gestionale. Che può essere installato su un Server locale o su Cloud.

Nel primo caso, il cliente ha precise responsabilità, che elenco in ordine:

  1. Controllare gli aggiornamenti ed il regolare funzionamento del gestionale e del Server che lo ospita.
  2. Effettuare dei backup sicuri, sia del gestionale che del Server che lo ospita, in modo da poter ripristinare, in caso di malfunzionamenti, il sistema nel minor tempo possibile.
  3. Effettuare dei test di funzionamento delle procedure di backup, simulando dei recuperi dati per validare l’efficacia del backup.

Nel secondo caso, quando il gestionale si trova nel Cloud, il cliente non ha responsabilità.

Quindi non ha bisogno di un tecnico che mantenga, verifichi e metta in sicurezza il sistema.

Non ha bisogno di acquistare un costoso Server.

Non ha preoccupazioni di alcun tipo.

Ma non le ha non perché non debba averne, ma per incoscienza. Perché nella fretta delle cose si pensa che il Cloud sia inviolabile, sia sicuro, sia esente da errori.

Anche un sistema Cloud necessita di backup, di manutenzione, di controllo.

Faccio un esempio: se utilizzo il Cloud di storage Dropbox, ho un cestino che conserva i file cancellati per qualche giorno nella versione gratuita, per qualche mese in quella a pagamento.

E’ una buona sicurezza? Si, se consideriamo il fatto che l’utilizzatore può inavvertitamente cancellare un file e recuperarlo dal cestino. No, se consideriamo un attacco hacker, durante il quale un hacker può accedere al nostro Dropbox, crittografare i dati per chiedere poi un riscatto e cancellare il cestino.

Immaginate il vostro gestionale su un Cloud che smette di funzionare. Avete garanzie sui tempi di ripristino? Avete garanzie sull’esistenza di backup aggiornati? E, soprattutto, avete la sicurezza che possano rimettervi in condizione di lavorare entro poche ore?

Molti servizi Cloud offrono servizi aggiuntivi di manutenzione e backup a pagamento, ma solo pochi utilizzatori li acquistano.
Un esempio per tutti è il Cloud di Microsoft, quello che si chiamava Office365 e che ora si chiama Microsoft365.

Pochi sanno che non comprende alcuna funzione di backup. Outlook (per la posta elettronica) ha il suo bel cestino, e One Drive (lo storage nel Cloud) anche. Ma nulla è attivo in caso di cancellazione totale di file e cestini.

Il punto rimane sempre uno: siamo noi i padroni dei nostri dati.

E dobbiamo poterne disporre sempre. Senza dipendere da altri.

La crisi dei giorni scorsi forse aiuterà molte persone ad aprire gli occhi. Non è mai troppo tardi.

 

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